Un vincitore c’è già: il Camerun di «capitan» Paul Biya. A lui è intitolato lo stadio della finale; a lui, presidente-padrone del Paese ospitante, il più longevo leader africano che ha passato al potere oltre la metà dei suoi 89 anni, andranno i proventi simbolici e i diritti d’immagine politica dell’evento più atteso del continente. Per una volta, milioni di africani non punteranno le antenne verso l’Europa, dove giocano i loro beniamini, ma dentro i confini di casa, negli stadi di un Paese pur teatro di una guerra civile che divampa senza rumore. Da oggi, per un mese, passeranno in secondo piano i malanni del continente più giovane (età media 19 anni). Scorrere la lista delle 24 nazionali in campo è come fare una ricognizione sulla quasi totalità delle crisi africane. L’Etiopia che rischia l’implosione nella guerra in Tigray, il Mali colpito da due golpe nel giro di un anno (la Guinea soltanto da uno), il Burkina Faso messo alle corde dai gruppi jihadisti, la Tunisia stanca di democrazia e il Sudan che invece caparbiamente ancora la insegue malgrado i falli da espulsione della casta militare, l’Egitto dell’autocrate Al Sisi che punta sui gol di Momo Salah per far dimenticare la brutalità della polizia. Si sa, Il balsamo del pallone tocca i depredati e gli oppressori. Da Khartoum a Ouagadougou, dai palazzi del re del Marocco ai baretti più polverosi di Lilongwe, il sogno della Coppa riunisce e distrae.
