Già dieci anni. Eppure sembra ieri. Quelle immagini, di lui che cade a terra, una, due, tre volte, che prova rialzarsi, una volta, un’altra ancora, per poi cadere di nuovo, per l’ultima volta, sono un ricordo che non si cancella. «Un reality della morte» lo definì Beppe Severgnini sul Corriere: «Immagini strazianti ma, purtroppo, ipnotiche». La prima morte in campo ai tempi di Youtube. Aveva 26 anni, Piermario Morosini. Cardiomiopatia aritmogena: questo disse l’autopsia. Fu una rara malattia ereditaria a portarselo via troppo, troppo presto. Era il minuto 31 di Pescara-Livorno, 25ª giornata del campionato di serie B. «Moro» si accasciò per sempre. La disperazione dei compagni, le lacrime della fidanzata Anna, l’ambulanza, i soccorsi, il silenzio, il calcio che si ferma, l’inchiesta: furono giorni intensi, duri, per tutti. La sua morte ha cambiato, in meglio, il calcio: da allora le procedure di rianimazione col defibrillatore si sono snellite, affinate. E oggi le possibilità di salvarsi in caso arresto cardiaco in campo sono aumentate.
Non era un campione. Ma aveva una forza d’animo fuori dal comune, racconta chi l’ha conosciuto. La vita non era stata facile, per lui. Era rimasto orfano già da adolescente, di entrambi i genitori. A 15 anni aveva perso la madre Camilla e due anni dopo, nel 2003, il padre Aldo. L’anno successivo si era suicidato il fratello disabile, quando Piermario era già passato a Udine, dove aveva fatto il suo esordio in serie A. Era rimasto solo con una sorella, anche lei disabile. «Aveva avuto una vita o sfortunatissima – raccontò Mino Favini, responsabile delle giovanili dell’Atalanta nelle quali il bergamasco Morosini iniziò a giocare – e nonostante questo aveva una disponibilità totale nei confronti dei compagni». Una vita dura, da mediano, come quello della canzone di Luciano Ligabue, che infatti era il suo cantante preferito. E che dopo quel 14 aprile scrisse una lettera pubblica: «Piermario era a Campovolo insieme a molti di voi. Era iscritto al barMario. La foto del suo profilo lo mostra con uno splendido sorriso. Un sorriso che non può non aumentare questa commozione. Questa incredulità. Sono sicuro che tutti gli altri iscritti al Bar Mario vorranno unirsi a me nel mandargli tutto l’affetto che merita. Ad accompagnarlo in un viaggio che, è l’augurio più sentito, possa almeno ricongiungerlo con la famiglia che aveva perso quaggiù».
Una vita da mediano che Moro affrontava col sorriso. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita – raccontò in un’intervista al Guerin Sportivo nel 2005 — ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici». Aveva un sogno, Piermario. E l’aveva realizzato.
«Era un ragazzo d’oro, quando si parla di lui mi viene subito la pelle d’oca. Sono stato testimone dei suoi successi, anche con la `mia´ nazionale Under 21, ma purtroppo ho dovuto vivere anche quella giornata nera per il calcio italiano», ha ricordato il presidente della Figc Gabriele Gravina a margine del premio Bearzot. Oggi il Museo del Calcio di Coverciano ricorda il calciatore attraverso la maglia numero 5 indossata in occasione dell’Europeo Under 21 del 2009 disputato in Svezia. Morosini aveva esordito con l’Under 21 nel settembre del 2006 e con la maglia degli azzurrini ha collezionato 18 presenze. La sua maglia è conservata al Museo del Calcio accanto a quella di un altro indimenticato calciatore, Davide Astori.